A Roma le tradizioni non muoiono, ma cambiano pelle. La città eterna è fatta di pietra e memoria, di sacro e profano che si rincorrono tra le vie strette di Trastevere e i palazzi austeri del centro. Le usanze popolari, i detti dialettali, le feste rionali, sono ancora lì, ma oggi convivono con una società in trasformazione, in cui il legame con le radici si fa più sfumato, soprattutto tra i giovani.
Chi è nato e cresciuto a Roma, soprattutto tra le generazioni adulte, vive ancora con naturalezza certe abitudini che affondano nella storia popolare della città. Il pranzo della domenica con i rigatoni con la pajata, la processione del Divino Amore, le “ottobrate” romane passate nei Castelli con porchetta e vino, sono più di semplici gesti: sono riti identitari. C’è chi ancora dice con convinzione “Annamo, che è tardi!” (Andiamo, che è tardi!), come se ogni romano vivesse perennemente in ritardo, o chi esclama “Stamo a guardà er capello” (Stiamo a guardare il capello) per indicare l’eccessiva pignoleria.
Eppure, la trasmissione di queste tradizioni si è incrinata. I giovani romani vivono in una città diversa da quella dei loro genitori. La globalizzazione, l’omologazione culturale, i social network, hanno modificato il modo in cui ci si rapporta al passato. Molti ragazzi conoscono le tradizioni, ma spesso le vivono da spettatori più che da protagonisti. Partecipano alla festa de Noantri o al Carnevale romano, ma talvolta più per folklore che per convinzione. Le fraschette ad Ariccia vengono scelte per una serata “tipica”, ma senza sapere che una volta erano luoghi di resistenza culturale popolare.
Questo però non significa che il legame sia spezzato. In alcuni casi è semplicemente cambiata la forma. Si riscoprono modi di dire sui social, si condividono video ironici in dialetto, si crea nuova cultura urbana che mescola passato e presente. Ci sono giovani che si appassionano al teatro dialettale, che imparano le ricette delle nonne, che rifiutano l’omologazione rivendicando l’orgoglio di essere romani. Magari gridando “Nun me sta bene manco un po’!” (Non mi sta bene per niente!) davanti alle ingiustizie quotidiane.
Le istituzioni locali provano a valorizzare le tradizioni, ma spesso lo fanno in modo scollegato dalla vita vera dei quartieri. Le scuole raramente inseriscono le usanze locali nei programmi, e questo crea un vuoto. Tocca allora alle famiglie, alle associazioni culturali, alle comunità rionali tenere vivo il filo.
Roma resta una città in cui il passato è sempre presente, anche quando si nasconde tra le pieghe della modernità. Le tradizioni sono come il fiume Tevere: scorrono lente, a volte sommerse, ma non si fermano. E se è vero, come dice il proverbio, che “A Roma ogni buco è storia”, allora c’è ancora speranza che i romani, giovani inclusi, imparino a leggere tra le pietre e i detti, per non dimenticare chi sono.
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